Daniele Nardi morto sul Nanga Parbat: il ricordo di Retesole

Nel 2015 il tentativo di raggiungere la vetta: lì in alto temperature molto basse e vento gelido

Forse sono stati uccisi dal freddo e dal vento Daniele Nardi e Tom Ballard. A pochi passi dalla loro tenda. Lì, a circa 5.900 metri sullo Sperone Mummery lungo la parete Diamir del Nanga Parbat, dove, secondo le ultime parole dell’alpinista di Sezze, “le temperature erano molto basse e soffiava un vento gelido”. Ad affermarlo sono i soccorritori della squadra capitanata dall’alpinista basco Alex Txikon, che ha scrutato con il suo telescopio le due sagome rilevate sulla parete della montagna assassina.

Daniele e Tom, secondo le ultime ricostruzioni, avrebbero attrezzato la via fino a circa 6300 metri, quindi sarebbero scesi al campo 4 dove avevano già posizionato la tenda. Ed è proprio in questo tratto che potrebbe essere accaduta la tragedia. Al vaglio della macchina dei soccorsi ora, ciò che più sta a cuore ai familiari e cioè quando e soprattutto come recuperare i corpi dei due alpinisti. Daniele, parole sue, voleva fare una cosa incredibile, impossibile. Era il quinto tentativo, dettato dall’ambizione di tentare quella via scelta nel 1895 dall’alpinista inglese, da cui prende il nome appunto lo sperone Mummery. Ad accompagnarlo in quell’avventura sono stati nel tempo compagni diversi. Ma forse nessuno credeva quanto lui in questo progetto, almeno fino all’incontro con il giovane Tom, figlio d’arte.

La cima del Nanga Parbat Daniele l’aveva sfiorata nel febbraio 2015 percorrendo un’altra via: la Kinshofer, considerata da tutti molto più accessibile e meno rischiosa. Al suo fianco, per un incredibile gioco del destino, proprio Alex Txikon e Alí Sapdara, due dei soccorritori. Dopo aver raggiunto la quota di 7.830 metri, i tre avevano scelto di tornare indietro. Ad un soffio dal mito, per salvaguardare la vita di Ali che aveva iniziato a mostrare i sintomi di un edema cerebrale. Già, perché Daniele in fondo era così. La vita e i valori prima di tutto. A dispetto dei commenti spesso superficiali fatti nelle ultime ore. Ecco cosa ci aveva raccontato al rientro da quella spedizione. Nel 2016 poi la spedizione che forse gli aveva lasciato più l’amaro in bocca. Discussioni, attriti con i compagni, polemiche, divergenze. E alla fine la rinuncia al tentativo di scalata. Scalata che poi sarebbe entrata nella storia con l’ascesa di Simone Moro, Alex Txikon e Alí Sapdara.

La via era un’altra, quella definita “normale”, non quella attraverso lo sperone, ma chissà quali sarebbero stati i pensieri e gli obiettivi di Daniele se in quell’occasione avesse raggiunto la cima della nona montagna più alta della terra. Perché la sua non era una semplice ossessione, era la ricerca di un sogno, era la voglia di scrivere la storia armato di piccozza e ramponi. Daniele credeva a quella via. Aveva deciso di affrontarla anche in solitaria. Aveva studiato quello sperone, lo considerava pericoloso ma non impossibile. E non era casuale la scelta della stagione invernale, scelta giudicata frettolosamente e in maniera errata negli ultimi giorni. Paradossalmente infatti l’inverno, con le sue rigide temperature, offre una scalata più sicura anche se le finestre di bel tempo sono più brevi. Ovvio, chi intraprende la via dell’alpinismo può calcolare i rischi, può limitarli, ma mai cancellarli del tutto.

“Andarci era un suicidio”, ripetono oggi in coro esperti e meno esperti del settore. Ma noi vogliamo onorare la memoria di Daniele che abbiamo conosciuto e intervistato più volte, prendendo a prestito le parole di uno dei più grandi alpinisti di sempre, Reinhold Messner: “L’impossibile è solo qualcosa che non è ancora stato fatto. Ci sarà sempre un impossibile da qualche altra parte […]. Dove ci sono anche i pericoli, che fanno aumentare la nostra paura, perché nessuno vuole morire lassù”. Il corpo di Daniele, insieme a quello di Tom, lassù ci è rimasto. Insieme ai suoi sogni, alle sue speranze, al suo entusiasmo. Tra le nubi tempestose del Karakorum.

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